Come nasce una perla… la resilienza tra trauma e rinascita
Sofferenza. Difficoltà. Paura. Angoscia. Vulnerabilità. Solitudine. Dolore. Odore di morte. Buio. Forza di volontà. Coraggio. Mani unite. Colori. Speranza. Voglia di vivere. Luce. Resilienza.
Dalle Tenebre si può arrivare alla Luce. Questo è quello che ho imparato sulla mia pelle, che ha marchiato a fuoco la mia vita e che, lentamente, dopo dieci “lunghi” anni di rielaborazione personale, e non solo, mi ha reso una persona differente, una persona “resiliente”.
Era il 13 ottobre 2003 quando, accompagnata dai miei genitori, varcavo, per la prima volta, la soglia del Day Hospital di Monza. Leucemia Linfoblastica Acuta, mi dissero. Tutto quello che riuscivo a vedere erano le teste pelate, bambini dagli occhi così strani che si lamentavano o piangevano coricati nei propri lettini, o che sfrecciavano nei corridoi a bordo di piccoli tricicli colorati. Cosa ci faccio io qui? Cosa c’entro in tutto questo? Tra poco è tutto finito e torno a casa… pensavo…
Oggi ho 26 anni, compiuti da qualche mese, e sono serena nel ricordare tutto questo, pensando a dove sono arrivata ora, e che persona sono diventata. Ma, posso assicurare, è stato buio totale: ho trascorso anni e anni della mia vita intrappolata dentro immagini che non riuscivo a scrollarmi di dosso, dentro rappresentazioni di me stessa e della mia vita cristallizzate e prive di senso profondo, incapace di “far presa” su ciò che ha significato la malattia per me in modo pienamente consapevole.
Laureata con 110 e Lode, alla Facoltà di Scienze Pedagogiche, presso l’Università degli Studi Milano-Bicocca, ho realizzato una tesi dal titolo “Come nasce una perla. La Resilienza tra trauma e rinascita”, e tutto questo certamente non è stato un caso. È nata in me, proprio durante gli ultimi anni di specialistica, dopo esattamente 10 anni da quel 13 ottobre, l’esigenza di riflettere sulla capacità degli esseri umani, di alcuni di essi in particolar modo, di saper trasformare un evento critico potenzialmente destabilizzante, in un motore di ricerca personale potentissimo, rendendo così tangibile la possibilità di riorganizzare positivamente la propria esistenza, avviando un progetto di vita capace di integrare e re-integrare la luce con l’ombra, la sofferenza con la forza, la vulnerabilità e il dolore con la gioia della Vita.
Il “legame con la Bellezza”, parte della tesi a me molto cara, ha certamente costituito lo sfondo di tutto il mio lavoro di riflessione. Difficile non interrogarsi su come poter accedere al significato che il Bello riveste per l’uomo, di fronte alla bruttura e alla disarmonia che una malattia oncologica come la leucemia può esibire e rappresentare, allontanando ogni minimo anelito e aspirazione verso la Bellezza. Oggi, più che mai, siamo parte di una società attratta soprattutto dalla bellezza nelle sue manifestazioni, nei lineamenti e nelle sembianze esteriori; più difficile è scorgere la Bellezza nella sua natura interiore, nella sua essenza più profonda, nei casi in cui ci si deve confrontare con quella realtà dei fatti che, inesorabile, tende a trascinare nella disperazione più totale. Ed ecco che io mi riferisco proprio a quest’ultima fattispecie: perché il Bello non può e non deve fermarsi a una constatazione di superficie, ma va colto nel suo modo di entrare nelle pieghe concrete della vita personale e del suo multiforme manifestarsi. Fermamente convinta che, come si legge nel famoso libro “il Piccolo Principe”, “… solo nella notte si vedono le stelle”, ecco che la Materia Notturna (la malattia) mi ha condotto ad affinare i sensi e a purificare la capacità di ascolto; ascolto di me stessa e ascolto del Mondo. Solo la Notte, con il suo lungo, profondo, infinito silenzio e apparente vuoto, mi ha permesso di collegarmi davvero alla Luce, ove le cose si sono rivelate nella loro più profonda essenza. Qui, certamente, lo sguardo non ha evitato di attraversare la “Notte oscura” della confusione, dell’incomprensione, del disorientamento. Perché è proprio così che ci si sente: immersi in domande esistenziali alle quali non si riesce a trovare risposta, anzi… più si prova a ricercarne un senso, più si ha la sensazione di scivolare in basso, senza alcun appiglio, senza alcuna sicurezza. Tutti gli eventi che ci richiamano alla nostra finitezza, come può essere la malattia, inevitabilmente, recano in sé un forte portato di dolore. Quando sperimentiamo la dimensione dolorosa che accompagna l’esistenza, immancabilmente la crudezza della vita viene messa a nudo dalle forze dell’evento. Quel 13 ottobre, l’abitudine improvvisamente si è interrotta, squarciata da una lama affilatissima, e mi sono ritrovata nuda, sola con i miei pensieri e le mie paure più ancestrali, indifesa, impaurita e massimamente esposta al rischio dell’annichilimento. La mia condizione di malattia persistente ha fatalmente imposto un profondo cambiamento nel mio modo di vivere, nel mio modo di guardare, di rapportarmi alla quotidianità, mutando le prospettive verso cui, prima di allora, avevo indirizzato le mie speranze, le mie aspirazioni, i miei sogni di ragazzina di 15 anni. Le giornate apparivano interminabili, trascorse rinchiusa tra le mura della stanza di ospedale sola con mia mamma, perché i valori troppo bassi non mi permettevano di incontrare nessuno; terminato il periodo di aplasia, qualche volta, quando le gambe riuscivano ancora a sorreggere tremolanti il mio corpicino, potevo concedermi una passeggiata nel corridoio, trascinando con fatica la flebo con la terapia, o, in alternativa, mi facevo spingere in carrozzina avanti e indietro. Tra un ricovero e un altro, quando tornavo a casa, la vita non era molto differente. Erano tanti i momenti trascorsi dietro il vetro della finestra di camera mia, a guardare fuori la vita che passava, a immaginare altre storie possibili, fantasticando sul ragazzo che portava a spasso il cane, o su due innamorati che, mano nella mano, passeggiavano sorridenti. Mi guardavo allo specchio, nostalgica dei miei capelli così lunghi e lucenti che facevano invidia a tutti, e osservavo i miei occhi; ecco che avevano la stessa espressione, forma e luce di quegli occhi che avevo scorto nei bambini il primo giorno di day hospital: ero una di loro. Difficile concepire e gestire tutto questo per me, quando, nel pieno dell’adolescenza, sentivo la mia anima scoppiare, intrappolata e rinchiusa in un corpo così fragile e dolorante; difficile non arrabbiarsi con il mondo intero sapendo che tutti i ragazzi della mia età trascorrevano le giornate spensierati al parco e iniziavano a fare, tutti insieme, le prime uscite serali. Tutto era così lontano da me, tanto che mi sembrava impossibile poter tornare, in qualche modo, a una vita come la loro. Credevo che la sofferenza e il dolore, insidiatisi nelle pieghe più profonde della mia esistenza, sarebbero durati per sempre. In tale contesto non riuscivo a vedere altro, a cogliere che, al di là di quel confine che avevo elaborato e che mi impediva di mantenere una “normale” vita di relazione, tante persone soffrivano e lottavano strenuamente con me.
Con il passare degli anni, però, ho imparato e profondamente compreso quanto sia necessario considerare il dolore non come un fantasma bensì come parte costitutiva della nostra esistenza, qualcosa nel quale ognuno di noi, in dimensioni e forme certamente differenti, può e deve fare esperienza. E così, messo a distanza come oggetto altro da me, il dolore, oggi, non è più tale, è il ricordo di esso, il ricordo di un suono, di un odore acre. Certamente non ho dimenticato quanto, nei momenti di più acuto dolore e disagio, ho sentito, ancor più forte, il bisogno di rendere meno assillanti le domande che richiamano se stessi a rivisitare il proprio vissuto. Momenti in cui cresce la tendenza a rendersi emotivamente impermeabili, avvolti, come una crisalide, dalla voglia di chiudersi in sé per difendersi dall’esterno, con l’effimera illusione di sentire meno male, sbarrando le porte anche a chi si avvicina, pur con l’intento di portare aiuto. Ed ecco che, inevitabilmente, mi sono ritrovata a prendere contatto con le profonde difficoltà, i miei limiti, le mie barriere psichiche. E poi, anche con le mie risorse, le mie potenzialità e le mie energie, le quali hanno ripreso vigore proprio quando tutto sembrava crollarmi addosso. Non ho mai tralasciato l’impegno scolastico; frequentavo la “scuola in ospedale” i primi anni e, successivamente, usufruivo della possibilità di incontrare i miei professori a casa sviluppando un progetto sperimentale. Cercavo il più possibile di stare al passo con le mie compagne di Liceo, seppur le forze non mi permettessero di mantenere la concentrazione per più di mezz’ora su un testo; anche il più semplice esercizio di matematica mi appariva come uno scoglio insormontabile.
Nell’evento che mi ha messo a confronto con una grave malattia, e soprattutto mi ha indotto a una trasformazione non voluta, è stata certamente decisiva l’intenzionalità con cui, dopo la fase iniziale di spaesamento e di shock, mi sono riportata ad essa. Ed è proprio qui che lo sforzo interpretativo e la rielaborazione si sono posti come strumenti ed esercizi esistenziali, giungendo, seppur dopo un tempo alquanto dilatato, all’appropriazione del mio vissuto, della mia storia, in modo pienamente consapevole e autoformativo. Molte sono state le volte in cui mi sembrava di “aver superato tutto”, di essermi lasciata alle spalle il vissuto di un periodo così doloroso, ma il sentire improvviso del cicalino che avvisava della cintura di sicurezza non allacciata o l’odore di una medicina bastavano per catapultarmi indietro nel tempo, trafitta dal suono metallico degli allarmi dei macchinari terapeutici, invasa dal quel senso di nausea che, spesso, accompagnava le mie giornate. Tutto ciò bastava per riportarmi così vivamente in uno stato di incontrollabile sofferenza.
Ed è proprio per questo che credo che il processo di resilienza sia strettamente collegato alla capacità di elaborazione del trauma. Per fare tutto ciò, il mio corpo e la mia memoria hanno attraversato un lento processo di cicatrizzazione e riparazione, utilizzando meccanismi di difesa maturi e funzionali, mettendo in pratica un lavoro semantico, una ridefinizione del significato dell’evento e della rappresentazione del dolore all’interno del mio sistema di relazioni: una metamorfosi nella rappresentazione della ferita. Tale elaborazione, la cicatrizzazione della ferita e la ridefinizione della sua rappresentazione sono dovute però procedere lentamente e consapevolmente, perché si sia vista realizzata la riparazione: una riparazione che tuttavia so non essere completa e definitiva. L’uomo e la sua psiche, si sa bene, non sono materiali semplici, ma macchine viventi complesse: benché “riparate”, non tornano mai esattamente come prima del guasto.
Ecco perché mi sento forte nell’affermare che ora sono una persona differente; una persona che non ha dimenticato o rimosso ciò che ha attraversato, ma che è riuscita, dopo tanta fatica e lacrime versate, a utilizzare tutto il dolore provato in insegnamento di vita, per me stessa e per gli altri. Credo fortemente che la resilienza, dunque, sia riparazione ma anche cambiamento, che nasca da una frustrazione ma possa trasformarsi in opportunità, in possibilità autentica.
Ed è, proprio giunta alla conclusione, che voglio ricollegarmi alla Bellezza. Nel farlo desidero lasciarne traccia con una “piccola” storia (da cui prende origine il titolo alla mia tesi di laurea):
“Quando un predatore entra nella conchiglia nel tentativo di divorarne il contenuto, ma non ci riesce, lascia dentro una parte di sé che ferisce e irrita la carne del mollusco; e l’ostrica si richiude e deve fare i conti con quel nemico, con l’estraneo. Allora il mollusco comincia a rilasciare attorno all’intruso strati di se stesso, co- me fossero lacrime: la madreperla.
Ciò che all’inizio serviva a liberare e difendere la conchiglia da quel che la irritava e distruggeva, diventa ornamento, gioiello prezioso e inimitabile.
Così è la Bellezza: nasconde delle storie, spesso dolorose. Ma solo le storie rendono le cose interessanti…”
Dunque credo fortemente che la Bellezza sia connessa al dolore; che toccando il fondo, si possa prendere uno slancio ancora più forte; e questo significa, a parer mio, nel linguaggio metaforico a cui io spesso ricorro, prendere contatto, durante il nostro doloroso cammino, con qualcosa di raro, una “madre perla” appunto, non con il suo “veleno”, non solo.
Francesca Lai
Dottoressa in Scienze Pedagogiche